Gli universi di Jean-Pierre Jeunet (regista) e Sebastien Japrison (scrittore) si incontrano a metà strada tra i fronti di Francia e Germania durante la Prima Guerra Mondiale, attorno a quella “terra di nessuno” ipotesi di un nulla scenografico e pluridimensionale, dove si sofferma il pensiero di un’amante addolorata ma non rassegnata e dove la fantasia può aprire i più ampi spiragli di probabilità. È qui che l’orfana e zoppicante Mathilde (Tautou) avvia la sua personale caccia all’uomo alla ricerca dell’amato Manech (Ulliel), quasi certamente morto in battaglia; è lei l’unica a dare ascolto al suo desiderio così tenue ed ostinato come il volo di un albatros controvento. Una romantica e folle storia d’amore tra una damigella ed il suo guerriero inconsapevole: due anime pure che fanno della loro semplicità uno scudo contro gli orrori del mondo. Audrey Tautou è dolce e coinvolgente come nel film che ha fatto il suo successo, ma per quanti sforzi lei abbia fatto per allontanarsi dalla figura di Amelie (vedi le parti in M’ama non m’ama, Dirty Pretty Things, L’appartamento spagnolo), è proprio su queste corde che riesce ad ottenere il suo climax recitativo, specie se supportata da un cast tecnico che sa come valorizzarla.
Due universi che si scontrano dunque, quello favolistico dell’abitazione di Mathilde e dei mercati di Les Halles di Parigi, ricostruiti in post-produzione dalla “Dubois”, e l’immagine sporca e tragica della trincea francese costruita fisicamente dalla scenografa Aline Bonetto e fotografata da un Bruno Delbonnel (inseparabile compagno di Jenuet da 25 anni) ispirato dalle opere del pittore brasiliano Juarez Machado e dalla luce di Gordon Willis ne Il padrino. La presenza di Jodie Foster fornisce un particolare spessore ai personaggi di contorno, che comprendono anche la misteriosa e affascinante Marion Cotillard, angelo vendicatore delle notti parigine. Una lunga domenica di passioni è una copiosa opera di immagini e scenografie d’impatto, brillantemente interpretata e posta a metà strada tra tanti punti partenza (Orizzonti di gloria, Le quattro piume, Salvate il soldato Ryan), ed un unico punto d’arrivo nell’ideale incontro di due corpi al di là della vita e della morte. La seconda parte del film, che si muove attorno alla flebilissima ipotesi che Manech possa essere ancora vivo, porta lo spettatore a porsi un’unica e inevitabile domanda: “e se fosse? Come potrebbe un regista premiare con le immagini un così grande gesto d’amore?”. L’unica risposta possbile sarà una soltanto: guardare, guardare e ancora guardare…
di Alessio Sperati