Horror di mestiere e ben confezionato prodotto di eccellenti professionisti, questa pellicola di Rob Schmidt (Delitto+castigo a Suburbia) del 2003, giunto da noi con un po’ di ritardo, riprende quel filone hooperiano da cui i registi USA di genere non sembrano sapersi più allontanare. Da Non aprite quella porta in poi l’horror americano sembra infatti costretto a condensarsi intorno all’esplorazione di luoghi (o case) desolati abitati dalle più stravaganti (e affamate) comunità, ponendo alcuni sottotesti di inevitabile critica sociale e moralismi di ogni sorta. All’inevitabile paura primordiale dell’esplorazione di territori sconosciuti, si aggiunge il quesito del “chi” è chiamato a compiere queste esplorazioni. Come perversa critica sociale, il male aggredisce la società del benessere e i suoi più emblematici sostenitori, i ragazzi, verso i quali queste ‘aggressioni’ sembrano una sorta di meritata punizione. In quell’arrendevole impatto con un nulla che acquista consistenza in corso d’opera, i cineasti sono tornati ad apprezzare i film low-budget, che erano proprio la forza dei cult anni ’60 e ’70 e hanno oggi fatto la fortuna di opere come B.W.Project. Wrong Turn non costa poco (10milioni di dollari il suo budget), ma riacquista un po’ quel fascino del ‘casareccio’ che il cinema americano sembrava aver dimenticato, pur proponendo effetti speciali di sicuro impatto emotivo, grazie a quel Stan Winston (La cosa) che nel settore effetti-trucco non è precisamente l’ultimo arrivato. Quando ‘qualcosa’ deve arrivare, ci pensa Stan a riempire la scena di orride creature difficilmente collocabili nella scala evolutiva dell’essere umano. L’idea della famiglia geneticamente mutata non è neanch’essa un’innovazione: c’è chi ricorderà un episodio di X-Filesche narrava qualcosa del genere: il suo titolo era Home. In effetti quella zona di bosco dove hanno l’onore di perdersi i protagonisti di Wrong Turn, dovrebbe rimanere X-File, ma l’unico a pensarla così è un gestore di una pompa di benzina dalle poche parole: nessuno mai è tornato dopo aver imboccato quella ‘scorciatoia’. Una traccia di filo spinato ti squarta i pneumatici dell’auto e poi sei preda di una battuta di caccia in grande stile. Wrong Turn introduce il concetto di devianza. Non solo in senso geografico del termine, insegnavano i fratelli Grimm che la strada più breve è sempre la più pericolosa, ma anche e soprattutto in senso etico. La devianza morale crea anche una sorta di menomazione fisica, (dalla notte dei tempi il male ha fattezze di mostruosità), così anche il “male sociale” può dare origine ad esseri informi, esteriormente quanto interiormente ‘mutati’. Se tutto ciò è riscontrabile in una pellicola come quella di Rob Schmidt, è anche vero che il regista si limita troppo all’esposizione del movimento, dell’azione pura, dagli inseguimenti ai nascondigli più improvvisati, utilizzando questi ultimi per creare interessanti attimi di tensione psicologica. Di contro non sviluppa per niente la natura dei ‘cacciatori’, non ci dice né chi sono, né perché sono come sono, lasciando inesplorate alcune vie che avrebbero fornito al film un maggiore spessore. Wrong Turn, pur rimanendo un film godibile, è l’ennesima espressione di una tipologia inflazionata e l’esempio che la salvezza di un genere non può prescindere da una semplcità di forma e contenuto.
di Alessio Sperati