Si è spento a 78 anni uno dei registi più visionari, Palma d’oro e Oscar alla carriera. Aveva una grave forma di enfisema.
C’è un momento nel cinema di David Lynch che tutti noi abbiamo vissuto almeno una volta nella vita, magari senza saperlo. È l’attimo in cui la realtà si sfalda, in cui la normalità rivela il suo volto inquietante, grottesco, sublime; ci sono immagini che ti scorrono sotto pelle. Lynch non è mai stato un regista che racconta storie: è un poeta che mette in scena le crepe attraverso un vero e proprio culto per l’estetica. Lynch è il regista dell’America profonda, non quella celebrata dei patrioti e dei cowboy; la sua America è fatta di strade deserte, di piccoli sobborghi che sembrano perfetti finché non avvicini lo sguardo. In Velluto Blu, dietro la staccionata bianca e il prato curato, ci sono insetti che strisciano sotto terra e uomini che sussurrano parole oscene. In Twin Peaks l’omicidio della reginetta della scuola svela una cittadina dove di puro non c’è proprio nulla se non forse l’aria boschiva.
Nato il 20 gennaio 1946 a Missoula, nel Montana, Lynch ha iniziato la sua carriera come artista visivo a Philadelphia, per poi passare al cinema con film sperimentali. Il suo primo lungometraggio, Eraserhead – La mente che cancella (1977), è diventato un cult. Ha ricevuto tre nomination all’Oscar come miglior regista per The Elephant Man (1980), Velluto Blu (1986) e Mulholland Drive (2001). La serie Twin Peaks, co-creata con Mark Frost, ha rivoluzionato la televisione negli anni ’90.
Negli ultimi anni, Lynch aveva reso pubblica la sua lotta contro l’enfisema, attribuito a decenni di fumo. In un’intervista dell’agosto 2024, aveva dichiarato di essere costretto a rimanere in casa a causa dei rischi per la salute e che ciò avrebbe probabilmente impedito ulteriori progetti di regia. La famiglia, il giorno 16 gennaio, ha annunciato la sua scomparsa sulla pagina ufficiale di Facebook, esprimendo il loro dolore e citando una delle sue frasi: «Keep your eye on the donut and not on the hole» (mantieni lo sguardo sulla ciambella e non sul buco).
La sua morte inattesa ha suscitato sconcerto e numerosi tributi da parte di colleghi e fan in tutto il mondo. Steven Spielberg ha dichiarato: «Il mondo sentirà la mancanza di una voce così originale e unica.» Martin Scorsese ha affermato: «Ha messo sullo schermo immagini che io o chiunque altro non avevamo mai visto.» Collaboratori come Kyle MacLachlan e Naomi Watts hanno espresso profonda gratitudine per l’impatto che Lynch ha avuto sulle loro carriere.
La realtà è un’illusione
Quando sei in classe e insegni elementi di narrativa, spieghi che c’è una “fabula”, un “intreccio”, che ci sono snodi, picchi di tensione, che c’è un prima e un dopo, un inizio e una fine e che poi c’è lui, David Lynch, che queste cose le ha rimescolate, annullate. Il suo cinema non procede mai in linea retta. Non c’è quello che chiameremmo trama nei film di Lynch, ma un flusso di coscienza che si snoda come in un sogno o, più spesso, in un incubo. Eraserhead, il suo esordio, è un viaggio angosciante dentro le paure della paternità. Mulholland Drive, capolavoro osannato e incompreso, è un labirinto dove la logica del desiderio sovverte ogni regola narrativa.
La chiave di lettura non esiste, perché a Lynch non è mai interessato l’essere capito. Lui stesso ha dichiarato di detestare le spiegazioni. «Un film deve essere vissuto» ripeteva, con quel sorriso enigmatico che sembrava uscito da uno dei suoi personaggi. Si deve vivere i suoi film e non cercare di spiegarli. Guardare un suo film significa abbandonare la sicurezza delle risposte. Lynch ci chiede di entrare nel suo mondo con gli occhi spalancati, pronti a vedere l’orrore e la bellezza intrecciarsi in un abbraccio mortale.
E poi c’è il suono. Nei film di Lynch, il silenzio è un protagonista. Non un silenzio tranquillo, ma un vuoto che vibra, che minaccia di esplodere. Quando la musica arriva, spesso firmata dal fidato Angelo Badalamenti, non è un conforto, ma un amplificatore del disagio. Le note dolci e malinconiche diventano una trappola emotiva: ci rilassano solo per farci cadere più a fondo.
David Lynch è un regista che divide. C’è chi lo idolatra e chi lo detesta, ma nessuno può ignorarlo. Ha creato un linguaggio visivo unico, fatto di immagini che rimangono incise nella memoria. Chi può dimenticare il rosso delle tende in Twin Peaks, o il sorriso agghiacciante di Frank Booth in Velluto Blu? Il suo cinema è un invito a guardare oltre la superficie, a scoprire ciò che ci spaventa e ci affascina allo stesso tempo. È un’esperienza che ci ricorda quanto sia fragile la nostra percezione della realtà.
Un enigma che ha stregato il mondo
C’è un “prima” e un “dopo” Twin Peaks nella storia della televisione. Quando il 9 aprile 1990 la serie ideata da David Lynch e Mark Frost debuttò su ABC, il piccolo schermo subì una scossa tellurica che ne ridisegnò per sempre i confini. Fino ad allora, le serie TV erano per lo più intrattenimento lineare e prevedibile, fatte per riempire serate tranquille con formule rassicuranti. Twin Peaks strappò via quella patina di comfort, mostrando che la televisione poteva essere arte, mistero e un labirinto di emozioni.
La premessa di Twin Peaks era semplice: chi ha ucciso Laura Palmer? Ma già dalla prima scena, con il ritrovamento del cadavere avvolto nella plastica, si capì che c’era qualcosa di profondamente diverso. L’indagine dell’agente Dale Cooper (interpretato da un indimenticabile Kyle MacLachlan) non era solo un viaggio alla ricerca di un assassino: era un’esplorazione dell’oscurità nascosta sotto la superficie di una piccola cittadina americana. Lynch e Frost usarono il giallo come un pretesto per creare un universo surreale, fatto di logge misteriose, nani danzanti e inquietanti visioni. Ogni episodio si addentrava più a fondo nei sogni e negli incubi, sfidando lo spettatore a mettere in discussione ciò che stava guardando.
Prima di Twin Peaks, la maggior parte delle serie TV seguiva una struttura episodica, con trame autoconclusive e personaggi statici. Lynch e Frost infransero queste regole, introducendo una narrazione seriale complessa e stratificata, in cui ogni dettaglio, anche il più insignificante, poteva nascondere un significato più profondo. La serie dimostrò che il pubblico era pronto per contenuti più sofisticati, capaci di mescolare generi e di osare con linguaggi nuovi. Twin Peaks era un thriller, un dramma, una soap opera e un horror, tutto nello stesso momento. E, soprattutto, non aveva paura di non offrire risposte. Possiamo dire senza timore di essere smentiti che serie tv come Lost, Dark, From, 24, Stranger Things, Perception e tante altre non sarebbero mai nate senza Twin Peaks. La sua capacità di intrecciare elementi surreali e realistici ha aperto la strada a una nuova generazione di showrunner, dimostrando che la televisione poteva competere con il cinema in termini di creatività e impatto culturale. Le sue inquadrature oniriche, i colori intensi, l’iconografia delle tende rosse e del pavimento a zig-zag della Loggia Nera, ogni elemento visivo del serial contribuiva a creare la sua atmosfera unica. La colonna sonora di Angelo Badalamenti, con i suoi temi eterei e malinconici, aggiunse un ulteriore livello di profondità. Era la prima volta che la musica in una serie TV non era solo un accompagnamento, ma una componente essenziale per comprendere l’emozione di ogni scena.
L’eredità che Lynch ci ha lasciato con il suo cinema è l’insegnamento che l’orrore non vive altrove, il mostro non è fuori. Non serve viaggiare nei castelli gotici o nei boschi tenebrosi per incontrare il mostro; basta accendere la luce nella stanza accanto o, peggio ancora, guardarsi allo specchio.